La mietitura

LA MASSERIA: PANE E LAVORO

Il periodo di attività lavorativa più intenso e febbrile nelle centinaia di masserie costituite da secoli nella campagna murgese è relativo al tempo della mietitura e della trebbiatura.

La mietitura si prolungava per dieci-venti giorni, dalla metà di giugno ai primi di luglio; a questo periodo va aggiunto II tempo occorrente per il trasporto sull'aia. Un mese di continuo via vai di gente, di tensioni, di preoccupazioni, di pericoli, ma soprattutto di dura fatica che accomunava uomini e donne, uomini ed animali, massaro e dipendenti; tutti consumavano le loro energie alla grandissima impresa che si ripeteva ogni anno inesorabilmente col suo cerimoniale forzato, se si voleva sopravvivere al proprio destino. Dice al riguardo un proverbio salentino: alla massaria nu manca nu pane nu fatia.

Rispetto agli altri cereali e ai legumi, la produzione del grano (u jrène) occupava il primo posto: ad esso erano rivolte le principali attenzioni del massaio per tutto il ciclo produttivo, dall'aratura alla trebbiatura, da esso proveniva la fonte della relativa ricchezza dell'azienda perché se una esigua parte era destinata al fabbisogno delle famiglie del massaio e del proprietario, la maggior parte veniva venduta.

I PREPARATIVI

I giorni che precedevano la mietitura erano giorni di vigilia per il grande avvenimento: si preparavano gli attrezzi, si estirpavano le erbacce dall'aia e dagli immediati dintorni, si controllavano i carri per il trasporto, si pulivano i locali destinati al deposito del grano, si rendevano idonee le stanze dell'abitazione del bovaro (a walanègne) per trasformarle in dormitori per i contadini assunti per i lavori imminenti, ecc. Soprattutto si preoccupava il massaio di ingaggiare anzitempo, sin dai primi di giugno, i lavoranti che dovevano risiedere nella masseria per almeno un mese. La manodopera era raccolta nei dintorni della masseria o in paese; spesso proveniva dall'agro di Locorotondo o di Ceglie, i cui mietitori erano stimati come valenti ed esperti.

Il lavoro da iniziare era molto duro e massacrante, per cui solo quegli uomini e quelle donne provati da quel tipo di fatica si prestavano. Dice al riguardo un proverbio: timpe de spapernà zite daddàò zite daddè, timpe de mete tutte i zite se done ntrete nei mesi precedenti per svellere le erbacce dal grano molti giovani offrivano volentieri le loro braccia, anche per corteggiare le ragazze lavorando gomito a gomito; alla mietitura, invece, gli stessi si rifiutavano adducendo dei pretesti.

LA VIGILIA DELLA MIETITURA

Il pomeriggio del giorno antecedente la mietitura. il massaro aveva l'accortezza di recarsi alle abitazioni del personale ingaggiato per prelevarlo, con traino o col calesse (a sciarrétte) e portarlo in sede, date le distanze e i mezzi dell’epoca (si andava a piedi), affinché il mattino dopo, prima del levarsi del sole, i lavoratori fossero nei campi già rifocillati e riposati. Il viaggio per la masseria (occorrevano ore) trascorreva tra convenevoli, scherzi, canti, narrazioni di casi personali, ecc. La prima sera, dopo cena, ci si intratteneva sugli stessi motivi; spesso si improvvisava un ballo augurale accompagnato dal suono festevole dell'arionette (organetto), antenato della fisarmonica molto in uso nelle campagne, ma si andava a letto presto.

Il pomeriggio del giorno antecedente la mietitura. il massaro aveva l'accortezza di recarsi alle abitazioni del personale ingaggiato per prelevarlo, con traino o col calesse (a sciarrétte) e portarlo in sede, date le distanze e i mezzi dell’epoca (si andava a piedi), affinché il mattino dopo, prima del levarsi del sole, i lavoratori fossero nei campi già rifocillati e riposati. Il viaggio per la masseria (occorrevano ore) trascorreva tra convenevoli, scherzi, canti, narrazioni di casi personali, ecc. La prima sera, dopo cena, ci si intratteneva sugli stessi motivi; spesso si improvvisava un ballo augurale accompagnato dal suono festevole dell'arionette (organetto), antenato della fisarmonica molto in uso nelle campagne, ma si andava a letto presto.

IL PRIMO GIORNO. GLI ATTREZZI DI LAVORO

Il primo giorno della mietitura cadeva all'incirca nella settimana di S. Vito (15 giugno), perché un popolare proverbio comandava: Aquanne arrive Sante Vite u jriene verde o secchete metite vale a dire, non era tempo di indugiare oltre, bisognava mietere subito; per evitare il disperdimento dei semi durante la raccolta, le spighe non dovevano essere completamente inaridite. Prima ancora della levata del sole, uomini e donne erano già pronti per partire a piedi per le pezze (appezzamenti seminabili: campi di grano, alcuni molto lontani dal nucleo abitativo della masseria). Si indugiava un po' solo nel caso che la notte avesse prodotto umidità.

Giunti sul posto, i cinque o sei metetaure (falciatori) si preparavano per l'operazione: applicavano al braccio sinistro una fascia di pelle di capra o di tela (u vrazzaule, il bracciale) per proteggersi sia dalle graffiature di spine ed erbacce sia dalle falciate; infilavano alle dita delle mano sinistra cinque cannedde (pezzi di canna lunghi quanto ogni dito, tagliati ad arte, con un foro attraverso cui era legato un filo di spago: i cinque fili rimandavano a un legamento comune da fissare al braccio), per lo stesso scopo protettivo. Infine impugnavano le tradizionali falciole da mietere (a falce, a falciodde) dacché da noi la frullana o falce armata (u falcione) a manico lungo è in uso solo a partire dal secondo ventennio del nostro secolo. Il lavoro con la falce messora (il primo tipo) era molto lento ma bene eseguito e richiedeva manodopera abbondante. Tale mietitura, tra l'altro, è necessaria ancora oggi quando si abbia un frumento molto irregolare e allettato (jrene mucchete a terra per tempesta).

RUOLI E COMPITI DEI LAVORANTI

I falciatori si predisponevano a scala in senso diagonale alla linea di campo (alla scalze), per non intralciiarsi il lavoro e per evitare il pericolo di ferirsi l'un l'altro; il primo mietitore che faceva da capofila era l’antire. Ogni mietitore impugnava con la mano sinistra le spighe senza estirparle e con la destra le falciava alla base. Due o tre manete mietute costituivano un piccolo fascio che veniva legato subito in modo provvisorio con alcuni culmi, di cui un capo si avvolgeva al pollice sinistro, e poggiato sul braccio. Subito dopo il falciatore formava altri tre o quattro mazzetti sempre da legare insieme e trattenere sul braccio sinistro con la stessa arte, dietro il pollice: il tutto era detto u scirmete (manello), che diventato pesante e ingombrante ostacolava i movimenti del falciatore e perciò era posato sul terreno.

Il lavoratore ricominciava e fare un altro scirmete e così via. Alle spalle dei mietitori agiva u liante (legatore di covoni), che raccoglieva alcuni scirmete (quattro o cinque) disseminati nel campo e li metteva insieme per fare nu mannucchie (un covone). Indi prendeva un pugno di piante più lunghe, lo divideva a metà e annodava incrociandole le estremità con le spighe: era u valze (legaccio, cintura); poggiava a metà della lunghezza del covone u valze tenendo con le mani le due estremità libere e, prendendo in braccio il covone, lo capovolgeva a terra e legava la cintura per tre volte. U mannucchie era fatto e veniva lasciato alla coste (a lato); il legatore ricominciava la sua fatica molto pesante e fastidiosa, anche per la presenza di spine nel grano. Il frumento non doveva essere sfatto (troppo maturo), altrimenti si spezzeve u valze perché secco: anche per questo motivo il grano si mieteva quand'era ancora verde-dorato.

LA GIORNATA LAVORATIVA: LE SOSTE, L'ALIMENTAZIONE

Dall'alba al tramonto si andava avanti con lo stesso ritmo lavorativo sotto la vigile guida del massaro, lui stesso in veste di falciatore, nella calura estiva allietata dal frinire delle cicale, dal canto degli uccelli e dal canto dialogato dei falciatori (uomini e donne), intessuto di "botte e risposte". Solo l'acqua ristoratrice du cecenete (orciolo per acqua) mitigava l'arsura dei lavoratori e ne era custode u liante (un giovane o una donna) che accorreva alle chiamate dai mietitori, avendo poi cura di riporre il prezioso contenitore al fresco di un fragno o di qualche covone. Erano previste, nella lunga giornata assolata, tre soste. Alle nove, all'arrivo della massara che in un paniere portava sul campo di lavoro pane, cacioricotta fresco, ricotte asquante (ricottaforte), ventresca arrotolata, vino e altra acqua di riserva, il caposquadra o il massaro dava l'ordine di sospendere il lavoro: era a sferre (colazione) della durata di circa mezz'ora, consumata sul campo, al sole.

La seconda sosta era prevista dopo mezzogiorno (12,30 -13) ed era più lunga e più compensatrice. Ci si riparava sotto un albero e se non c' era nelle vicinanze lo si cercava: l'ombra era quanto mai indispensabile nell'ora più battuta dal sole. Compariva di nuovo l'attesa figura della massara che, questa volta. recava alimenti più sostanziosi: un piatto grande (comune) di pasta casalinga con polpette dl uova e di pane, oppure pasta e ceci, frittura di zucchine o di fiori di zucca, ciuchere o acce (cicoria o sedano) da mangiare insieme alla pasta, vino o altro. Consumato velocemente II pranzo, ci si stendeva sotto il fragno o qualche macchia con guanciale nu mannucchie per assopirsi un po' e ce n'era veramente bisogno. Questa lunga sosta non durava più di un’ora e trenta. La terza ed ultima sosta avveniva dopo le 17, della durata di circa mezz'ora, per consumare a marenne (spuntino pomeridiano), una fritte (frittata di uova), formaggio fresco oppure sciolto nell'olio bollente, ecc. In tal modo si riprendeva con buona lena il lavoro fino al tramonto.

AL TRAMONTO: L'ANTIRE FA LE SEDERRE

Ma non era finita: prima di rientrare alla masseria bisognava raccogliere I covoni sparsi nel campo. Mentre gli altri falciatori trasportavano a mano le mannocchiere, l’antire (il capoccia) si impegnava a fare le seddere, cioè specie di piccole biche da erigere sul campo falciato, qua e là, perché non c'era tempo per trasportare il raccolto della giornata sull'aia. Era questo un lavoro più leggero ma richiedeva maggiore esperienza. U sidde era costituito da trenta covoni nel caso di abbondanza di raccolto, da venti nella norma: aveva la forma di un prisma a base triangolare ma poggiato a terra su una faccia. L’antire poneva a scalare uno sull’altro le mannocchiere, avendo cura di lasciare in vista sui piani triangolari le code dei covoni, mentre le spighe si incontravano a mause a mause (a faccia a faccia) all'intero.

RITORNO ALLA MASSERIA. IL RIPOSO

Finalmente i falciatori rientravano nella masseria che era già buio e tolti i segni del lavoro massacrante, riordinati e rinfrescati, alla luce fioca di lampade ad olio o a petrolio o a gas (ma queste ultime dai primi del XX secolo), si riunivano a tavola per la cena calda nella walanegne consumando fave o legumi, verdura cotta, baccalà, vino o altro. Dopo cena si sedevano all'aperto sul chiazzile (spiazzo antistante il fabbricato) o sull'aia, per il riposo tanto meritato; se avevano voglia cantavano, raccontavano storie, ballavano. Finito il breve svago, si ritiravano nelle anguste stanze improvvisate a dormitori, separatamente maschi e femmine, stendendosi a terra su sacchi ripieni di pagghie lescine (paglia di orzo) ad uso dl materassi. Un'altra faticosa giornata da sole a sole, dall'alba al tramonto) incombeva sui dormienti, senza tregua, anche se il giorno seguente era domenica. E così per tanti lunghi giorni.

IL TRASPORTO DEI COVONI. I CARRI

Terminata la mietitura, il massaro predisponeva il trasporto dei covoni sull'aia (carescià i mannocchiere). Mezzi di trasporto erano a carrette(il carro) e u trajne: il primo, in uso fino agli ultimi decenni del XIX secolo ma sopravvissuto anche in seguito, dalle ruote grandi e pesanti per via dei carichi maggiori, aveva una sola stanga collegata col giogo (u sciaure)) e, quindi era tirato da due buoi (nu paricchie de vuve o de vacche nustrène, cioè di razza pugliese, dal mantello grigio, con le corna lunghe, dalle carni magre; di questa razza oggi si contano solo alcuni superstiti esemplari). Il traino, invece, aveva due stanghe ed era tirato da uno o due cavalli o muli, in genere dalla giumenta (a sciumménte), ed era un mezzo più veloce e più agile del primo. Il massaro o chi per lui si portava per primo sul campo mietuto ove giacevano le seddere già essiccati (dovevano essere sistematicamente guastati, per poi diventare tutti insieme sull'aia un colossale sidde, chiamato a mete, la bica), e restando sul carro cominciava a sistemare uno per uno i covoni, che un lavoratore u calamannúcchie) gli porgeva con u furchéte (il forcone di legno a due rebbi).

LO SCARICO SULL'AIA. LE BICHE

Il viaggio terminava sullo spiazzo (u chiazzile) antistante la masseria o sull'aia (l'ère) lastricata in pietra dura, a circolo o a quadrato, recintata da un filare di conci squadrati: ivi si provvedeva allo scarico. Li attendeva u matire, lavoratore addetto a innalzare le méte (biche), molto esperto in materia perché anche lui doveva evitare l'infiltrazione nel raccolto delle acque piovane e ridurre al minimo i danni dell'azione del vento. A mete si poteva erigere o a sidde (questa volta grandissimo), a forma prismatica, o jacque da fore (a struttura molto atta a forma di parallelepipedo, con tetto a due spioventi come u sidde. Una bica si completava fino a sera, a seconda del numero dei carri impiegati e della lontananza o vicinanza dei campi di grano; poteva essere alta fino a 10 m. circa ed era la prima di una serie di méte, piazzate di fianco. Le biche erano guardate a vista fino al termine della trebbiatura, giorno e notte, da una persona, che si costruiva a lato una piccola capanna di paglia (apagghire) per ricovero. Lungo le mete si mettevano anche cani da guardia legati ad una catena scorrevole lungo un filo di ferro fissato a due pesere (grosse pietre da trebbia), poste ai margini delle biche. Il pericolo di incendi causati anche da piromani era reale. Il lavoro di trasporto delle messi era occupazione degli uomini e durava circa una settimana. Un solo carro, in abbondanza di raccolto, non era sufficiente; si ricorreva spesso a qualche altro massaro (a cui si doveva ricambiare la prestazione) o ai trainire di paese (carrettieri), assoldati a giornata.

prof. Giovanni Liuzzi

Riflessioni - Umanesimo della Pietra, Martina Franca, 1978 (n. 1) STORIA DELLE TRADIZIONI POPOLARI - Timpe de méte [mietitura a Martina Franca], pp. 11-15.

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