La vendemmia

La vendemmia e la preparazione del vino nel palmento, tipica costruzione del nostro paesaggio rurale a trullo, rappresenta il culmine dell’annata agraria relativa alla coltura della vite.

ln tempi remoti le uve si pigiavano all’aperto in due strutture adiacenti: il pozzo e il palmento. Il primo, u palacce o u puzze, era una vasca vinaria di modestissima capacità internamente intonacata a stagno con creta impastata a calce, mentre la bocca si apriva all'estremità centrale del lato contiguo al palmento. Quest'ultimo era costituito da un riquadro in muratura di conci perfettamente lavorati con bordatura di pezzi su tre lati soprelevata di qualche palmo sul livello del terreno. Il piatto del pavimento, lastricato a chianche anch'esse ben squadrate e lavorate, era sottoposto di circa 60-70 centimetri e serviva da calcatoio o pigiatoio, con una leggera inclinazione verso un lato del recinto, quello comune col pozzo vinario. Qui, centralmente, era situata una pelèdde (piletta) che attraverso un canale di pietra scaricava il mosto nel pozzo. Al centro del palmento si trovava, infine, una lastra di pietra leggermente in rilievo con un foro quadriforme, in cui si innestava la colonna del torchio di legno. Il palmento negli altri mesi dell'anno serviva per la raccolta delle acque piovane. A settembre il pozzo veniva svuotato, ripulito e preparato per contenere il mosto, che doveva essere travasato subito, non appena terminata la vendemmia, nei contenitori situati in qualche trullo delle vicinanze, oppure trasferito coi carri in paese, al sicuro.

Questo tipo di palmento presentava degli inconvenienti sia per l'immediata necessità del travaso sia per il pericolo delle piogge durante la pigiatura e la torchiatura delle uve. Pertanto, agli inizi del secolo XIX cominciò a cadere in disuso (oggi è un raro avanzo archeologico) e cedette il posto al palmento interno al trullo o alla lamia, composto un vano grande per la pigiatura e la torchiatura all'ingresso, con finestra di scarico e pavimento avente una leggera inclinazione verso la piletta, e altri locali adiacenti con funzione di cantina. La disposizione della stanza adibita a palmento e degli altri locali, però, non era stereotipata: variava a seconda della genialità inventiva del costruttore (ad esempio, non sempre è previsto il pozzo vinario). Alcuni palmenti a trullo spesso sono vere e proprie opere di meravigliosa architettura: quattro grandi casèdde comunicanti fra di loro con grandi arcate a tutto sesto impostate al centro dell'edificio su un unico grandioso pilastro. Altrettanto dicasi per le lamie-palmento, costruite a cotto e non a crudo come i trulli, sicuramente proprietà di borghesi, dalle eleganti volte a crociera, a cielo di carrozza, ecc.

La vendemmia iniziava già allo spuntare del sole e coinvolgeva un nutrito gruppo di persone di ogni età, solitamente familiari, compari e amici del vignaiuolo, che si aiutavano vicendevolmente nelle operazioni della vendemmia, prestando forza-lavoro a parità di trattamento. Tutti i presenti, muniti di un secchio e di una rungedde (roncoletta), si disponevano in ordine lungo alcuni filari e cominciavano tagliare i grappoli. Non appena il secchio era colmo, ciascuno andava a svuotarlo nelle bigonce (tenedde, gerla, sorta di tino di forma leggermente troncoconica). Quando queste erano riempite, dal gruppo dei vendemmiatori si separavano i caresciature (trasportatori di uva). Costoro erano uomini fisicamente dotati, che, da quel momento fino alla fine della giornata, avrebbero fatto continuamente la spola fra il palmento e il posto ove avveniva il taglio, portando sul capo la bigoncia, il cui peso a malapena era attutito dal cercine (a spere). All'atto del carico avevano bisogno di un aiutante, u mbunnetòre, il quale subito dopo tornava a vendemmiare; allo scarico che eseguivano sulla soglia di una finestra particolare del palmento (u menataure), invece, facevano da sé. Dopo qualche ora dall'avvio della vendemmia, un altro manipolo di uomini validi si allontanava dal gruppo (rimanevano per il taglio, per lo più, donne, vecchi e bambini), per recarsi a lavorare nel palmento ove molta uva era stata già depositata ed era tempo ormai di pigiarla e indi torchiarla. Questi erano l’umene du palumminte.

L’ammostatura avveniva sul pavimento del palmento o calcatoio. I pigiatori, scalzi o con grosse scarpe chiodate, iniziavano la loro attività spandendo una parte della massa dell'uva sulla superficie a disposizione con un forcone o con una pala, lasciando a un lato il monte alimentato continuamente dai trasportatori. Successivamente pestavano coi piedi il letto delle uve, muovendosi con passo ritmato in giro in giro (atto del cazzà o stumbà l'uva); rivoltata la quantità con la pala, la dimenavano una seconda volta per raggiungere un'incalcatura più completa. Si otteneva in tal modo la grassa, cioè l'uva pigiata da spremere al torchio; se essa non era sufficiente per una torchiata, se ne follava altra allo stesso modo, dopo aver spalato la prima ad un lato del calcatoio o dopo averla riversata nel torchio.

ll mosto ricavato in questa prima fase prendeva due denominazioni: a lacreme (il presmone) era quello colato naturalmente dal monte delle uve a causa della loro pressione, molto dolce e saporoso; u muste da cazzète, quello fuoruscito dalle pigiature. I due tipi, però, non erano da separarsi, anzi vi si mescolava anche u muste da stréngetòre (lo stretto), prodotto dalle varie torchiate. La triplice distinzione, quindi, era puramente nominale. Nel corso della pigiatura, in assenza di pozzo vinario, uno degli addetti provvedeva a svuotare di tanto in tanto il mosto affluito nel bacino di raccolta (a pelèdde), servendosi della jalette, per riversarlo nel tino e successivamente nei vasi vinari di ogni tipo. Si rendeva indispensabile tale passaggio per la chiarificazione del mosto da raspi, acini, vinacce, e ogni altra evidente impurità. Infatti, salendo in superficie nella massa vinaria contenuta nel tino, era più facile in tal modo poterli spurgare. Se, al contrario, il palmento era dotato di un palacce, le cose si semplificavano: era sufficiente appendere sotto u cacone (condotto di pietra che metteva in comunicazione la piletta con il pozzo) un panere di pétre (cesta ordinariamente usata per il trasporto di pietre o terra). Qui il mosto defluito di volta in volta si depurava da sé. Ma la difficoltà si presentava nel momento in cui il pozzo si colmava (si diceva: je murte u palacce, ossia è pieno), per cui si doveva ricorrere al tino. La seconda fase della vinificazione era alquanto complessa. Alla stréngetore (da strenge, spremere, torchiare) gli uomini presenti nel palmento si impegnavano con tutte le loro forze. Dopo la prima fesculete o meglio la prima stréngetore si ripeteva l’operazione ancora due volte, utilizzando la stessa quantità di vinacce già torchiate, che venivano sminuzzate con le mani (questo lavoro era detto vutà, rimestare). Trasportate all'esterno del palmento le vinacce del tutto sfruttate, ripulivano il pavimento colle apposite scope e si accingevano a pigiare altra uva per indi pressarla con identica procedura.

La vendemmia poteva protrarsi anche per più giorni quando il raccolto era superiore al previsto e, in ogni caso, in presenza di superfici vitate abbastanza vaste. Nei giorni di vendemmia il vignaiuolo si occupava prevalentemente della vinificazione delle uve bianche; raramente vi mescolava le uve nere, ma in modestissima quantità. Non doveva alterare il colore del vino bianco destinato interamente alla vendita. La buona commercializzazione del prodotto costituiva l'unica fonte di reddito di cui disporre per un'intera annata e il mercato respingeva vini mal riusciti o bastardi. Per il fabbisogno familiare annuale, tuttavia, egli preparava alcuni mosti e vini particolari in partite molto limitate: vino nero, vinello, vino avvinacciato, vino con la cottura, vincotto, cotto, vino del monaco. Il vinello e il vino del monaco, soprattutto, erano i classici vini consumati quotidianamente dai contadini medio-poveri, anche se proprietari di qualche quartiere di vigna. Le scarse uve nere si ammostavano prima di quelle bianche per via della maturazione anticipata. Qualche torchiata, se pure, bastava a riempire un capasone o una rezzole di mire gnaure. La produzione de u pére, invece, era motto più abbondante; l'acquerello (mezzovino, vinello) si otteneva dalle vinacce delle uve bianche, durante le ultime torchiate della giornata e naturalmente dopo che il condotto del pozzo vinario fosse stato opportunamente otturato. Il vinello richiedeva una non comune esperienza perché potesse riuscire buono, cioè saporoso e frizzante. Il segreto era nel dosare convenientemente la resa della torchiata: 30-50% al massimo di acqua, misura proporzionata da stabilire preventivamente, ad occhio. Due-tre salme di vinello, riposto al momento nei capasoni, era più che bastevole per un anno. Vino speciale era invece, a mire avvenazzete o tragghiete (vino avvinacciato, crovello). Si ricavava da uve nere. I vitigni di uva nera erano molto radi in una vigna. La preparazione de u cutte (cotto, defruto) e del conseguente mire cutte (vincotto), a base di puro mosto, richiedeva tanto lavoro e tempo. La lunga, eccessiva cottura del mosto doveva effettuarsi subito dopo una premitura, nella stessa giornata in cui si vendemmiava: per ciò una unità lavorativa (solitamente una donna) veniva praticamente distaccata da ogni altro negozio. Si usavano caldaie di rame rossa di media grandezza da collocare su enormi tripodi, all'aperto, in prossimità di una legnata, spesso la catasta dei sarmenti. Questa, però, era una soluzione alquanto disagevole, nel caso di forte vento o pioggia improvvisa, o per l'umidità della notte, dovendosi protrarre la cottura per 14-15 ore continue. I contadini più previdenti avevano a fucagne, rudimentale cucina in muratura senza camastre (catena) ma con bocca per contenere la caldaia e sottostante fornacetta, struttura allogata in una corte o al riparo sotto una suppènne (tettoia). Talvolta, in prossimità delle casèdde del palmento o dell'abitazione, compare un trulletto apposito, denominato a furnedde, con ingresso aperto ad arco a tutto sesto, contenente una fucagne molto grande in grado di sostenere il peso di una callère da ttenge (detta così perché simile per capacità a quella usata dai tintori, cioè caldaia per tingere i tessuti). Per fare un buon cotto, era consigliabile mettere da parte il mosto più limpido e puro, precisamente quello derivato dalla seconda stréngetore di una o più torchiature. La quantità raccolta era versata con le menze nella caldaia a fuoco già avviato in mattinata. Appena raggiunta l'ebollizione, si doveva rallentare la vampa mantenendola però costantemente desta e viva; dopo l'evaporazione di una buona metà del liquido, si riduceva ulteriormente ravviandola di continuo fino alla fine. La bollitura doveva essere persistente per parecchie ore e alla medesima temperatura: se il fuoco diventava forte, il mosto invece di bollire si gonfiava (abbuttève), fuoruscendo dalla caldaia, oppure prendeva un sapore forte di bruciato (s’arrameve, sapeva di rame). Inoltre, con una schiumarola dal lungo manico (a cucchiere), si toglieva senza posa la schiuma prodotta dall'ebollizione (schumà). Quando il cotto arrevève, ossia si decideva di togliere dal fuoco la caldaia, a sera inoltrata o durante la notte, erano passate 14-15 ore dall’inizio della cottura del mosto. Nella tradizione locale il cotto serviva a governare il mosto normale per ricavarne un vino speciale gustoso, aromatico, marsalato detto mire cutte (vincotto). Infatti, ancora caldo o fatto intiepidire, si versava nei capasoni ripieni di mosto naturale in proporzioni non esatta-mente precisate: per esempio, in un capasone di una salma di mosto si aggiungevano 13 litri di cotto (circa il 10%), ma la percentuale poteva essere più alta o più bassa, secondo le preferenze. La fermentazione del miscuglio avveniva molto lentamente; appena essa era terminata, si ostruiva non del tutto la bocca del capasone e si attendeva fino a luglio (naturalmente alla festa di San Martino) per poter assaggiare questo vino robusto e sicuro, addolcito e vigoroso, da conservare anche per anni e anni, senza correre il rischio che diventasse aceto. Il cotto si usava anche per preparare dolci domestici a Natale e a Pasqua, nonché per ammannire la neve (a nève pu cutte), delizia invernale di un tempo. Per tale scopo si levava qualche ora prima dal fuoco per avere maggiore dolcezza e si conservava puro, senza miscelarlo ai mosti, imbottigliandolo il giorno stesso della cottura. Questo era più propriamente u cutte (vino cotto), densissimo, non da bere; altra cosa, come si è detto, era u mire cutte (vincotto, ma intendersi vino col cotto). Terminata ogni attività vinificatoria, si attendeva finalmente alla pulitura del palmento e delle attrezzature, impiegando ancora qualche altra giornata di lavoro. La vendemmia era veramente finita.

Riferimenti biliografici:

Riflessioni - Umanesimo della Pietra, Martina Franca, 1988 (n. 11) MARTINA E LA VITE - III PARTE - Uomini e strutture in tempo di vendemmia [Martina Franca e la vite], pp.53-66
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